Sentenze

Tribunale Ordinario di Verona, Sez. Lavoro – Ordinanza 28.10.2014 n. 5165/2014 (Dott. Benini)

Diritto dell’immigrazione – Diritto del lavoro – Cittadinanza – Prerequisiti accesso bando pubblico – discriminazione sulla base della nazionalità

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI VERONA

SEZIONE LAVORO

Il Giudice

Letti gli atti e sciogliendo la riserva presa all’udienza di data 14 ottobre 2014 osserva:

L’art. 44 comma 10 della legge n. 2S6 del 1098 (T.U. sull’immigrazione) attribuisce espressamente la tutela contro gli atti e i comportamenti discriminatori di carattere collettivo alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Deve essere dichiarata pertanto la carenza di legittimazione attiva, quale ricorrente, dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione A.S.G.I.

Non vi è ragione invece per non ritenere legittimata attiva, quale terzo interveniente, l’Associazione per i diritti dei lavoratori – Cobas (ADI. Cobas), in quanto associazione avente – quale scopo la promozione e la tutela delle condizioni lavorative e sociali dei lavoratori (ai sensi dell’art. 3 dello Statuto dell’Associazione) di qualsiasi nazionalità; è quindi titolare di un interesse giuridico a intervenire nel presente procedimento “sub specie” di intervento adesivo dipendente.

La società convenuta ne ha eccepito il difetto di legittimazione attiva nonché la carenza dei requisiti fissati dalla legge per l’intervento nel presente giudizio, senza tuttavia indicare sotto quali profili la legittimazione attiva sarebbe carente.

Nel merito occorre osservare quanto segue.

S.A., titolare di permesso di soggiorno UE come soggiornante di lungo periodo, è stato escluso dalla partecipazione alla selezione pubblica indetta dall’A.M.I.A Verona con bando di concorso indetto in data 24.2.2014 in quanto in possesso della sola cittadinanza del Marocco e non della cittadinanza di uno degli Stati dell’Unione Europea.

L’interrogativo al quale occorre dare risposta è se detta esclusione costituisca una discriminazione diretta sulla base della nazionalità.

A detto interrogativo va data risposta affermativa.

L’art. 43 del TU legge sull’immigrazione n. 286 del 1998 al primo comma da una definizione assai ampia della nozione di discriminazione, laddove nella parte che qui interessa afferma che costituisce discriminazione ogni comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basala sulla razza (…) o l ‘origine nazionale o etnica.

Nel secondo comma precisa in quali casi sia ravvisabile un atto di discriminazione.

Con riferimento al caso qui in esame, vengono in considerazione in particolare il punto c ) e il punto e).

Il punto c) prevede che commetta un atto di discriminazione “chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso di occupazione (?) allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia a nazionalità”.

Il punto e) a sua volta prevede che commettano un atto di discriminazione “il datore, di lavoro o i suoi preposti i quali ai sensi dell’art. 15 della legge 20 .5 .1970 n. 500 come modificata e integrala dalla legge 9 .12.1977 n. 003 e dalla legge 11.5 1990 n. 108) compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche indirettamente e i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza (?) ad una cittadinanza”.

In entrambe queste fattispecie rientra il comportamento discriminatorio adottato dall’A.M.I.A. la quale nel ravviso di selezione pubblica ha previsto che i candidati fossero in possesso, tra l’altro, del requisito della “cittadinanza di uno dagli Stati membri dell’ Unione Europea con adeguata conoscenza della lingua italiana”.

A tale riguardo non sono condivisibili le osservazioni della società convenuta.

Non e condivisibile infatti l’assunto della parte convenuta laddove sostiene che la richiesta dei requisito della cittadinanza europea non contrasterebbe con le disposizioni di legge anzidette, dato che la cittadinanza non rientrerebbe tra i fattori di discriminazione. È evidente tuttavia che il legislatore utilizza i termini “cittadinanza” e “nazionalità” in maniera indifferenziata e senza una ragione precisa: si noti infatti come nell’art. 43 comma 2 lett. c) utilizzi il termine “nazionalità”: “di appartenente ad una determinata (?) nazionalità” mentre alla successiva lett. e) utilizzi il termine “cittadinanza”: “in ragione della loro appartenenza ad una cittadinanza”. D’altra parte il cittadino di uno Stato ha la nazionalità di quello Stato e quindi non si comprende a quale proposito i due termini si differenzierebbero.

Non è condivisibile l’assunto della parte convenuta neppure laddove sostiene che l’art. 43 comma secondo lett. e) riguarderebbe esclusivamente la fattispecie dei lavoratori che siano già stata assunti e non già, come nel caso del ricorrente, dei lavoratori i quali lamentino una discriminazione nella diversa fase di accesso al lavoro. Parte convenuta richiama sul punto una pronuncia della Cassazione (Cass. n. 24170 dei 13.11.2006) la quale in un “obiter dictum” afferma che altra norma (l’art. 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo) si limiterebbe a precludere le discriminazioni tra lavoratori già assumi e non già tra concorrenti.

Deve ritenersi che l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 43 comma secondo lett. e) riguardi anche il caso della fase di costituzione del rapporto e quindi della fase genetica e non soltanto della fase funzionale. D’altra parte anche nella fase di avvio del rapporto si fa comunemente utilizzo di termini come “lavoratore” e “datore di lavoro”.

Inoltre a minare “alla radice” la tesi della società convenuta deve richiamarsi il D.Leg.vo n. 215 del 2003 che, nel recepire in Italia la Direttiva europea n. 43-2000, all’art. 3 comma l lett. a) estende il principio di parità di trattamento d’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, senza distinzione di razza od origine etnica.

Il divieto di discriminazione di cui al D.Leg.vo n. 215 del 2003 che proibisce ogni discriminazione anche indiretta, per ragioni di razza o di origine etnica assume una rilevanza tutta particolare nel nostro Paese, in cui la gran parte degli stranieri appartiene a gruppi etnici non europei.

Sulla contiguità tra fattori di discriminazione fondati sulla razza e sull’origine etnica da un lato e sulla nazionalità dall’altro lato sono interessanti le considerazioni svolte dall’Agence des Droits nel suo rapporto annuale del 2010 richiamate in ricorso, secondo cui sovente la discriminazione fondata sulla nazionalità o sull’origine nazionale nasconde invece una caratterizzazione fondata sull’origine etnica.

Per cui il divieto di discriminazione fissato dal D.Leg.vo n. 215 dei 2003 può trovare applicazione anche con riferimento al diniego di accesso all’occupazione per ragioni di nazionalità nonostante che nel testo della legge si faccia menzione della sola discriminazione per ragioni di razza e di origine etnica.

L’art. 14 comma I dei D. Leg.vo n. 286 1998 prevede che il giudice può ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere, gli effetti della discriminazione’.

La dizione usata dal legislatore ricalca ad un dipresso quella riportala nell’art. 28 della legge n. 300 1970 (Statuto dei lavoratori) in forza del quale è pure consentito al giudice, una volta che abbia ravvisato una condotta antisindacale, di ordinare al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

Il principio “cardine” è quello per cui alla persona oggetto della discriminazione deve essere consentito di ritornare nell’identica posizione che avrebbe avuto se la discriminazione non ci fosse stata.

All’A.M.I.A. deve essere ordinato di rimuovere il diniego alla domanda avanzata da parte di di ammissione alla selezione indetta nel 2014 e consentirne la partecipazione a detta selezione.

Non è in contestazione tra le patti che la società A.M.I.A. Verona non rientra nel novero delle Amministrazioni pubbliche.

La stessa A.M.I.A. per mezzo dei suo difensore infatti che nella lettera di data
7.5.2014 afferma elle la società (…) non ha natura di Pubblica Amministrazione ed è tenuta alla sola applicazione dei principi di cui all’art. 35 del D.Leg.vo n 165 del 2001.

Non occorre pertanto prendere in esame le considerazioni svolte dalla Cassazione (Cass. n. 18523 di data 11 .6.2014) ad avviso della quale non sarebbe ravvisabile un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico.

Ad ogni buon conto possono ritenersi legittime quelle sole differenziazioni le quali trovino la loro ragion d’essere in norme espressamente derogatorie. Dette norme sono unicamente quelle che riconoscono ai soli lavoratori italiani il diritto a partecipare a pubblici concorsi per la copertura di posti che un interesse fondamentale e inderogabile della collettività ne giustifichi la riserva ai cittadini italiane. Si ha a tale proposito il caso delle qualifiche implicanti l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero attinenti alla tutela dell’interesse nazionale. Ipotesi che qui certamente non ricorrono.

Per il resto deve essere garantita nel merito piena equiparazione.

Dal punto di vista procedurale possono permanere invece delle differenziazioni tra accesso all’impiego privato e accesso all’impiego pubblico.

Il D.L. 112 del 2008 convertito nella legge n. 153 del 2008 all’art. 18 comma 2 bis prevede che “le disposizioni che stabiliscono a carico delle amministrazioni divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale e di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara”.

Dove allora ritenersi che una società come A.M.I.A., partecipata interamente dal Comune di Verona, debba adeguarsi ai criteri di evidenza pubblica e di trasparenza fissati in materia di bandi di concorso pubblico.

A tale riguardo parte ricorrente ha chiesto che sia dichiarata la discriminatorietà della propria esclusione dalla procedura di selezione indetta nel 2012 per l’assunzione a tempo indeterminato e nel 2013 per quella a tempo determinato.

In questa parte il ricorso non può trovare accoglimento.

Non è infatti consentito rimettere in discussione i bandi di concorso del 2012 e del 2.013 che non sono stati impugnati tempestivamente e i cui effetti eventualmente lesivi non possono essere più rimossi.

Come è stato osservato, l’onere di immediata impugnazione di bando di un concorso pubblico sussiste quando si lamenti un diretto effetto preclusivo della partecipazione (come nella fattispecie, nella quale si lamenta di non aver potuto prendere parte alla selezione in mancanza del requisito della cittadinanza).

S. A. ancora all’epoca avrebbe quindi dovuto impugnare quei bandi di selezione dal quali era rimasto escluso.

Può essere riaperto invece il bando di concorso del 2014 di cui all’avviso di selezione pubblica indetto in data 24.2.2014.

Parte convenuta ha eccepito anche in questo caso a decadenza per inosservanza del termine fissato dall’art. 21 della legge n. 1034 del 1971.

Non vi è prova tuttavia che S.A. abbia avuto “piena conoscenza” del contenuto del bando di concorso ancora alla data in cui il bando è stato indetto.

Per cui deve ritenersi che alla data del 30.4.2014, allorquando S.A. inviava la lettera monitoria (doc. 10 fascicolo di parte ricorrente) il termine dei 60 giorni non fosse ancora decorso.

Occorre ora accertare se a S.A. compete il risarcimento del danno per la perdita della c.d. “chance”.

Con tale espressione, come è noto, si intende la perdita della possibilità di conseguire un risultato favorevole o di non vedere svanire una situazione vantaggiosa.

La perdita della c.d “chance” è quindi una voce di danno autonoma. Non è un danno futuro, come si riteneva quando si riconduceva la perdila della “chance” nell’alveo del lucro cessante ma la perdita della possibilità attuale di conseguire un risultato utile che già appartiene al patrimonio del danneggiato al tempo della scorretta valutazione (e quindi rientra nella categoria del danno emergente). La perdita della “chance”, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale: ne consegue che la “chance” è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile: tra le altre Cass. 21.7.2003 n. 11322.

La giurisprudenza, superando iniziali posizioni di chiusura netta nei confronti della risarcibilità della perdita della “chance” e superando anche impostazioni che, pur ammettendola in linea teorica, la negavano di fatto ha sempre più decisamente ammesso la sussistenza di un danno risarcibile ogni qual volta sia ravvisabile resistenza di una possibilità di risultato favorevole. Sono rimaste cosi isolate quelle pronunce che ammettevano la risanabilità del danno “de quo” in quelle ipotesi in cui le possibilità fossero superiori al 50% (Cass. 19.12.1085 n. 6506). Tale orientamento – oramai consolidato – si è andato via via precisandosi nel senso di una netta distinzione di risarcimento del danno da mancata promozione e risarcimento del danno da perdita della “chance”. In entrambi i casi deve essere data la prova del nesso causale tra inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di effettuare corrette valutazioni comparative ed evento dannoso, costituito dalla mancata promozione del lavoratore nel primo caso, dalla perdita delle possibilità di promozione già acquisite prima dell’esecuzione delle operazioni selettive nel secondo (CASS. 15.3.1996 n. 2167; Cass. 20.1.1992 n. 650). Nel primo caso, ossia laddove SI richieda il danno da mancata promozione si ritiene invece che da parte dei candidati che si ritengano ingiustamente pretermessi debba essere data la prova che, nell’ipotesi di osservanza dei criteri di valutazione, l’esito della valutazione sarebbe stato loro favorevole consentendo di non comprenderli nella fascia dei promuovendi.

Quanto alla prova della esistenza della perdita di una “chance” si ritiene invece sufficiente la ragionevole certezza del danno e cioè l’esistenza di una possibilità, non marginale e non trascurata le di esito favorevole, rilevando la misura di tale possibilità sotto il diverso profilo dell’entità del danno. Il diritto al risarcimento del danno per perdita della “chance” prescinde da uno specifico riferimento all’entità della possibilità sottratta al candidato, dato che questo aspetto afferisce al “quantum” del danno risarcibile.

Il ricorrente ha fornito la prova, sia pur in via presuntiva, della ragionevole probabilità dell’esistenza di una “chance” di conseguire l’incarico di operaio netturbino patente C.

La perdita della “chance” è ravvisabile nel fatto che S.A. aveva già lavorato proficuamente in passato presso A.M.I.A. proprio nelle mansioni di netturbino patente C, avendo partecipato con esito favorevole alla selezione per le mansioni di netturbino indette nel 2011 e avendo quindi lavorato con contratto a tempo determinato poi prorogato dal 6.6.2011 al 31.12.2012.

Si può quindi affermare con assai ragionevole probabilità che, ove avesse potuto partecipare alle selezioni indette nel 2014 per quel medesimo posto, S.A. avrebbe superato tutte le prove, sia pratiche sia teoriche, avendo già maturato una buona esperienza nelle medesime mansioni.

Una volta provata l’esistenza della “chance” è noto che nella quantificazione del danno relativo non si può che ricorrere ad una valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. atteso che detta disposizione è diretta proprio a far fronte all’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno.

Tenuto conto dei tempi di svolgimento della selezione, ammontare congruo dei danni da perdita della “chance” deve ritenersi la somma di euro 6.500 pari alla metà della retribuzione maturata dal ricorrente nel 2013.

Anche il presente provvedimento costituisce “decisione che definisce il giudizio” sia pure potenzialmente e quindi in questa sede nulla osta che possa essere liquidato il danno. Non vi è prova che il ricorrerne abbia patito ulteriori danni.

Quale misura opportuna allo scopo di rimuovere gli effetti della dissertazione, il presente provvedimento deve essere pubblicato per estratto sul sito aziendale nonché affisso nei locali aperti al pubblico della società convenuta.

Non si vede invece quale efficacia dissuasiva dal reiterare altre condotte dello stesso genere potrebbe avere la pubblicazione del provvedimento su un a tiratura locale.

Le spese del procedimento devono far carico alla società convenuta A.M.I.A. che è rimasta soccombente sulla questione di maggiore rilevanza nel presente giudizio.

Nel loro ammontare le spese di lite sono liquidate come da dispositivo.

PQM

decidendo nella causa ci cui in epigrafe, uditi i procuratori delle parti, cosi statuisce:

Dichiara il difetto di legittimazione attiva in capo all’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione A.S.G.I;

Dichiara il carattere discriminatorio del comportamento tenuto da A.M.I.A. Verona spa la quale nell’indire la selezione pubblica con ravvivo del 24.2.2014 ha previsto tra i prerequisiti il possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri dell’Unione Europea;

Ordina a A.M.I.A. Verona Spa di rimuovere e dal suo regolamento interno ogni riferimento alla necessità che, nelle procedure di selezione per l’avvio alle assunzioni, i candidati debbano essere in possesso della cittadinanza italiana o della cittadinanza di uno degli Stati membri dell’Unione Europea;

Ordina a A.M.I.A. Verona Spa di dar corso ad una integrazione delle prove di selezione in modo da consentire a S.A. di prendere parte alla selezione pubblica di cui all’avviso del 24.2.2014 3 parità di condizioni con gli altri partecipanti;

Condanna VM.I.A Verona Spa a pagare a S.A. a titolo di risarcimento del danno per perdita della “chance” la somma netta di euro 6.500,00 oltre agli interessi legali fino al saldo;

Ordina ad A M.I.A. Verona Spa di fare in modo che per giorni 20 il dispositivo del presente provvedimento sia pubblicalo sul sito aziendale nonché sia affisso nei locali aperti al pubblico; rigetta nel resto il ricorso;

Condanna A.M.I.A.. Verona Spa a rifondere a S.A. e all’Associazione dei diritti dei lavoratori – Cobas (ADL. Cobas) le spese del presente giudizio, spese che in favore di ciascuna delle parti, sono liquidate nella somma complessiva di euro 3.800,00 per compenso professionale, oltre al rimborso forfettario delle spese nella misura del 15% e oltre a IVA e CPA;

Si comunichi alle parti a cura della Cancelleria.

Verona, lì 18 ottobre 2014

il Giudice

Dott. Michele Maria Benini

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