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Giustizia digitale: sentenze online, trasparenza o gogna 2.0?

Giustizia digitale una locuzione di cui sempre più si discute e non solo relativamente alla recente approvazione del processo civile telematico. Attraverso questa espressione, infatti, si fa riferimento anche a tutte quelle modalità che stanno cambiando il volto al mondo della giurisprudenza. Il dibattito si fa acceso in particolare riguardo al tema della diffusione, online, delle sentenze pronunciate nei tribunali, nelle corti d’appello e in quella di Cassazione.
Proprio quest’ultima dal 2014 ha caricato sul suo sito internet tutte le sentenze pronunciate a partire dal 2009, rendendole consultabili sia dagli avvocati che dai comuni cittadini e che riportano le generalità complete delle parti (imputato e vittima) così come quelle dei testimoni o di qualsiasi persona che suo malgrado viene citata nella sentenza. Lo scopo dichiarato è quello di offrire libero accesso al patrimonio giuridico italiano.
La decisione della suprema corte esaminata dai professionisti della giustizia è alquanto combattuta. In un articolo pubblicato su un giornale online, l’avvocato Monica A. Senor critica la scelta della Cassazione che “ci ha di fatto riportatati ad un’epoca pre-illuministica, quando l’unica forma di pubblicità concessa dai sovrani assoluti era quella dell’esecuzione della pena, mediante l’inflizione di esemplari punizioni corporali, sulla pubblica piazza”.  Oggi quella pubblica piazza si allarga sempre più a causa della “pervasività dei moderni mezzi di comunicazione”.
D’altro canto il pubblico dominio delle pronunce dei giudici può essere definito come una necessità intrinseca alla sentenza stessa che viene emessa “in nome del popolo italiano”, permettendo, in questo modo, a quel popolo di esercitare una sorta di controllo sull’apparato della Giustizia. Certo il ragionamento non fa una piega ma più che di controllo sarebbe meglio parlare di trasparenza, visto che a norma dell’articolo 101 della Costituzione “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Fermo restando il primo assunto cioè la necessità che le sentenze siano pubbliche perché pronunciate in nome del popolo italiano e che la loro “pubblicità” sia direttamente collegata alla nozione di trasparenza e libera accessibilità agli atti che uno Stato democratico adulto deve necessariamente promuovere, è essenziale tenere in considerazione che le sentenze sono effettivamente atti pubblici ma contengono fatti di vita privatissimi e personali, che, per legge, devono essere tutelati. In questo senso è inevitabile che si crei una sorta di corto circuito. Come regolare in modo legittimo, da una parte, il giusto grado di trasparenza e, dall’altro, la sfera personale delle persone coinvolte?
Il cosiddetto Codice della Privacy in Italia è del 2003( L. 196/2003)  . Dal prossimo anno regole più ferree imposte dall’Ue apporteranno modifiche allo stesso Codice. Si tratta di regole generali e linee guida sulle modalità da attuare nel trattamento dei dati, cioè degli elementi che attengono alla sfera personale.  E’ stato lo stesso Garante all’indomani della pubblicazione, nel 2014, da parte della Corte di Cassazione delle 400 mila sentenze degli ultimi 5 anni, a chiedere, in una lettera, di avere un confronto sulle modalità in cui la pubblicazione delle sentenze poteva ledere la sfera personale delle persone coinvolte e, dunque, violare gli articolo 51 e 52 del vigente Codice sul trattamento dei dati personali.
Il dibattito è ancora aperto. Da un lato ci sono i promotori della diffusione del patrimonio giuridico italiano attraverso i mezzi tecnologici dall’altra c’è chi proprio in questi strumenti vede la causa di possibili indicizzazioni indiscriminate e reperibilità illimitata di dati che contrastano con quanto evidenziato dalla Corte di giustizia europea nella sentenza sul diritto all’oblio.  Torna comodo qui citare il sempre attuale Herbert Marshall McLuhan: “il medium è il messaggio”.

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Stefania Di Ceglie

Giornalista

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