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Il reato di appropriazione indebita: tra novità legislative e giurisprudenziali

L’appropriazione indebita: definizione e osservazioni generali

L’appropriazione indebita è quel reato punito dall’art. 646 del codice penale che commette chi, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o di una cosa mobile altrui, della quale abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Il fondamento della disposizione codicistica, come statuito peraltro dalla Corte di Cassazione, deve essere individuato nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso.
Vista la collocazione del delitto nel capo II Titolo XII, Delitti contro il patrimonio mediante frode, si apprende che il bene giuridico tutelato dal vigente art. 646 c.p. è il patrimonio e, quindi, la proprietà. Pertanto, la vera essenza del reato consiste nell’abuso del possessore, il quale, a un certo punto, dispone della cosa come se ne fosse proprietario (uti dominus). Si parla infatti di interversione del possesso: il soggetto attivo, inizialmente possessore, manifesta verso i terzi la volontà di comportarsi come proprietario. L’interversio va individuata sulla base di elementi di fatto concreti, indicativi del mutato atteggiamento dell’agente.
Per comprendere a pieno la ratio alla base della fattispecie ex art. 646 c.p. occorre dapprima chiarire la nozione di ‘possesso’. Nell’ambito del diritto penale, il concetto di possesso non deve essere inteso secondo la nozione civilistica, che esige il concorso dell’elemento materiale e dell’animus possidendi, bensì in un senso più ampio, comprensivo anche della detenzione a qualsiasi titolo (es. locazione, comodato, deposito ecc.). Il comportamento del soggetto attivo del reato si deve esplicare al di fuori della diretta vigilanza del possessore (in senso civilistico) o di altri che abbia sulla cosa un potere giuridico maggiore (Cass. pen., sez. II, 23 febbraio 2011, n. 6937).
Pertanto, e per chiarire, il reato si considera consumato nel momento in cui il soggetto che ha la disponibilità della res pone in essere un comportamento idoneo a qualificarlo come proprietario, emergendo la volontà di appropriarsene in via definitiva. La consumazione, nella prassi, è di particolare interesse poiché è da quel momento che cominciano a decorrere i termini di prescrizione (nel caso de quo, 6 anni).
Infine, analizzando l’elemento soggettivo, il dolo richiesto dalla fattispecie è specifico come si deduce dalla lettera della norma. Dovrà dunque considerarsi la coscienza e volontà di appropriarsi definitivamente della cosa mobile o del denaro altrui con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
 

Condotta tipica: precisazioni del Tribunale di Monza

Come si evince da quanto affermato in precedenza, la condotta consiste nell’appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui da parte di chi abbia già il possesso o la detenzione. In questo senso, vale la pena richiamare una recente sentenza del Tribunale di Monza (Trib. Monza, sez. pen., 14 marzo 2018, n. 651), la quale, prendendo spunto da un’ipotesi di mancata restituzione al legittimo proprietario di un PC, fa chiarezza sulle molteplici modalità con cui si può concretizzare la condotta penalmente rilevante. Secondo la sentenza in oggetto, richiamandosi a quando già affermato dalla Suprema Corte, la condotta tipica può assumere molteplici forme: «La condotta che realizza la fattispecie criminosa può assumere espressioni o forme diverse, che sono individuate in fatti o atti che, sorretti dall’animus domini dell’autore, si traducono nella consumazione o trasformazione, nella alienazione, nella ritenzione, nella distrazione della cosa o del denaro».
Le osservazioni del Tribunale di merito sono però di maggior interesse nella valutazione dell’ipotesi di omessa restituzione della res da parte del possessore. Nel ragionamento del Giudicante, a conferma peraltro del maggioritario orientamento in giurisprudenza, l’art. 646 c.p. non si ritiene integrato nell’eventualità in cui il possessore si rifiuti di ottemperare a una richiesta di restituzione. La situazione de quo ha mero rilievo civilistico, pertanto il soggetto negato della reintegra di una cosa di sua proprietà dovrà agire innanzi al Giudice civile per vedersi riconosciuto il proprio diritto, non trovando tutela in sede penale.
Diversamente argomentando si giungerebbe a un assurdo non essendo più differenziabile l’area del diritto civile da quella del penalmente rilevante.
 

La procedibilità per l’appropriazione indebita dopo il d.lgs. 36/2018

Il reato di appropriazione indebita, nel panorama giuridico attuale, è punibile solamente a querela della persona offesa. A tal proposito va ricordato che il diritto di querela va necessariamente esercitato nel termine massimo di tre mesi dal giorno della conoscenza del fatto che costituisce il reato.
Nella disciplina ante riforma del 2018, per alcuni casi era prevista la procedibilità d’ufficio. In particolare, si trattava delle seguenti ipotesi:

  • il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario;
  • ricorre taluna delle circostanze indicate nell’art. 61 n. 11 c.p., ovverosia il fatto è commesso con abuso di autorità o di relazioni domestiche o con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità.

Come anticipato, il d.lgs. n. 36 del 10 aprile 2018 ha ampliato gli spazi della procedibilità a querela per i reati che offendono la persona e il patrimonio, tra cui anche proprio il reato di appropriazione indebita. L’art. 10 del detto decreto, abrogando parte dell’art. 646 c.p., espande la procedibilità a querela dell’appropriazione indebita aggravata dall’aver commesso il fatto su cose possedute a titolo di deposito necessario (art. 646 comma 2 c.p.) o con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità (art. 61 n. 11 c.p.).
Della novella legislativa in questione è opportuno qui ricordare anche l’art. 12, regolante il regime transitorio e oggetto di contrasti giurisprudenziali. Ai sensi di quest’ultima disposizione, per i reati diventati perseguibili a querela commessi prima dell’entrata in vigore del decreto, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Se, invece, è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, è tenuto a informare la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.
Recentemente, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate su una questione riguardante proprio l’art. 12 comma 2 d.lgs. 36/2018. Sul punto, l’ordinanza di rimessione alle S.U. chiedeva di chiarire se l’avviso alla persona offesa dovesse essere dato anche in relazione ai ricorsi inammissibili, i quali, a parere della giurisprudenza, non sono idonei a costituire un valido rapporto processuale. Dalla sentenza n. 40150 – depositata il 7 settembre 2018 – risulta che «in presenza di un ricorso inammissibile non deve darsi alla persona offesa l’avviso previsto dall’art. 12 comma 2 d.lgs. 36/2018 per l’eventuale esercizio del diritto di querela».
 

Casi pratici: ultime pronunce sul fatto di reato commesso dagli amministratori di condominio

Un’interessante, e recente, pronuncia sulla responsabilità penale ex art. 646 c.p. dell’amministratore di condominio è la sentenza del 7 maggio 2018, n.19729, Corte di Cassazione, sez. II penale. Secondo la Corte è ravvisabile un’oggettiva interversione del possesso, e quindi la commissione del reato, tutte le volte in cui l’amministratore di condominio, anziché adempiere agli obblighi derivanti dalla sua funzione, dia alle somme a lui rimesse dai condomini una destinazione incompatibile con l’incarico ricevuto per l’utilizzo delle stesse e coerente, invece, con scopi suoi personali. In altri termini, si integra la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. tutte le volte in cui l’amministratore, che abbia ricevuto dai condomini somme di denaro al fine di provvedere all’esecuzione di specifici lavori o pagamenti, utilizzi quanto consegnatogli uti dominus, per scopi estranei alla gestione condominiale.
In una diversa sentenza, la Cassazione interviene sul tema della procedibilità a querela o d’ufficio per il reato di appropriazione indebita aggravata, alla luce delle recenti modifiche apportate dal d.lgs. 36/2018.
La sentenza n. 23077 del 2018 afferma un importante principio di diritto. Precisamente, la Corte, pronunciandosi su un ricorso in tema di appropriazione indebita aggravata, ha affermato che nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile nel giudizio non deve essere attivata la procedura prevista dall’art. 12 comma 2 d.lgs. 36/2018.
La decisione risolve una questione che fino a quel momento aveva di fatto bloccato i processi in corso per il reato commesso dagli amministratori condominiali. La massima così esposta fa in modo che sia sufficiente la costituzione del condominio come parte civile per scongiurare l’interruzione del processo per richiedere allo stesso se intende presentare la querela, evitando che questi procedimenti rischino di cadere nel nulla. È ovvio che una sentenza in tal senso è volta a tutelare i condomini danneggiati.
In chiusura, si fa notare che, in difetto di una querela presentata dal condominio, anche il condomino in quanto tale la può presentare. È palese che anche il singolo sia persona offesa dal reato di appropriazione indebita, quanto meno limitatamente alle sue quote millesimali.

dott. Matteo Morbin

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Matteo Morbin

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi Verona, tesi in diritto processuale penale dal titolo Iscrizione della notizia di reato nel registro ex art. 335 c.p.p. e principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Praticante avvocato. Frequenta la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, Università degli Studi di Trento e Verona.

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